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Intervista a Helena Oliviero, Campionessa italiana di Cup Tasters

Intervista a Helena Oliviero, Campionessa italiana di Cup Tasters

La filiera del caffè è ricca di figure e professionalità differenti, ognuna delle quali concorre ad offrire al cliente la qualità del prodotto finale.

L’assaggio, ad esempio, è un passaggio importantissimo nella determinazione della qualità del caffè e, proprio a questa abilità, sono dedicate le gare di Cup Tasters. In cosa consistono?

Al partecipante vengono sottoposte otto triplette di tazze di caffè; ogni tripletta presenta due caffè uguali e uno diverso, e il concorrente deve riuscire a indovinare la tazza differente.

Vince chi ne identifica il maggior numero nel minor tempo possibile. Approfondiamo l’argomento nell’intervista a Helena Oliviero, giovane professionista nell’arte dell’assaggio che, nel 2018, si è aggiudicata il titolo di Campionessa italiana di Cup Tasters e, nel 2019, quello di vice-campionessa.

Scopriamo perché si è avvicinata a questo settore, che doti bisogna possedere per operare in tale ambito e quali sono i possibili sbocchi lavorativi.

Quando e perché hai scelto di specializzarti in un settore specifico come quello dell’assaggio?

Tutto è iniziato durante le scuole superiori, quando ho cominciato a lavorare nella ristorazione proseguendo la mia carriera nel Regno Unito.

Successivamente, ho partecipato in Europa ad alcuni corsi legati al mestiere di barista e al mondo del caffè: è stato lì che ho scoperto questo “universo”.

Ho capito che il mercato del caffè è un sistema estremamente variegato, nel quale ruoli altamente specializzati concorrono ad un risultato di qualità.

In particolare, ad interessarmi, è stata proprio la parte legata all’assaggio, in quanto consente di scoprire le tante sfaccettature che esistono tra una bevanda e l’altra, e di capire perché un caffè si esprime in un determinato modo.

Per questa ragione, ho deciso di continuare questo percorso e di specializzarmi sempre di più.

Come si diventa esperti nell’arte dell’assaggio?

È essenziale possedere delle qualità “innate”, come una particolare sensibilità nei confronti di odori e sapori?

Per quanto riguarda l’analisi sensoriale, la popolazione viene divisa in tre gruppi, ognuno dei quali si riferisce a una determinata sensibilità in riferimento all’assaggio: ci sono i non-taster, i normal-taster e i super-taster.

I primi, che rappresentano il 25% della popolazione, presentano una sensibilità bassa; i secondi, che equivalgono al 50%, una sensibilità intermedia; i terzi, corrispondenti al restante 25%, hanno una sensibilità molto accentuata.

Benché esista una predisposizione naturale, però, le doti innate non sono tutto: personalmente, credo molto nella capacità di imparare e di affinare le proprie abilità grazie all’allenamento.

Inoltre, trovo più importante “capire” il caffè, ovvero essere in grado di comprendere perché un caffè possiede determinate caratteristiche, rispetto alla mera sensibilità in sé.

Quando hai iniziato a competere?

La prima gara a cui ho partecipato, nell’ambito del circuito WCE (World Coffee Events), fondato dalla SCA (Specialty Coffee Association), è stato il primo Campionato Italiano di Cezve/Ibrik del 2016, il caffè alla turca, dove ho conquistato il primo posto.

Avevo voglia di mettermi alla prova e ho scelto proprio quel campionato perché, avendo viaggiato nei Balcani, ero rimasta affascinata da questo metodo di preparazione lontano dalla nostra cultura ma, allo stesso tempo, ricco di simbolismo e significati.

Dopo aver conquistato il terzo posto al Campionato Italiano di Aeropress nel 2017 e aver ottenuto le certificazioni Q Grader Arabica e Robusta, particolarmente legate all’ambito dell’assaggio, mi sono avvicinata alla gara di Cup Tasters.

Nel 2018 sei stata Campionessa italiana di Cup Tasters e nel 2019 hai vinto il titolo di vice-campionessa; nel 2016, come ci hai detto, sei stata Campionessa italiana di Cezve/Ibrik, il caffè alla turca: quanto sono importanti le competizioni per la crescita professionale?

Sicuramente, le competizioni danno una forte “accelerata” alla crescita professionale, perché mettono nelle condizioni di migliorare e imparare per dare il massimo. 

La gara, infatti, “obbliga” il partecipante a sperimentare, ad affinare le proprie capacità e a trovare le soluzioni migliori per ottenere determinati risultati.

Nella vita di tutti i giorni, purtroppo, non c’è sempre il tempo e il modo per dedicarsi a questi aspetti, per cui posso certamente dire che le competizioni aiutano tutte le figure del mondo del caffè a crescere e a perfezionarsi.

Quali opportunità professionali si aprono per chi decide di specializzarsi in un settore come quello dell’assaggio?

Vincere una gara di Cup Tasters, a mio avviso, non porta necessariamente a ottenere un immediato sbocco professionale, ma aiuta a rendersi visibili nell’ambiente.

È il lavoro personale sulle proprie capacità, nel mio caso sul campo, ad aprire interessanti opportunità lavorative come, ad esempio, la possibilità di operare nel controllo qualità e ricerca e sviluppo per le aziende che importano il caffè verde, le torrefazioni e i produttori di caffè porzionato e solubile.

È necessario allenarsi costantemente per mantenere determinate abilità nella degustazione?

Sì, è necessario allenarsi costantemente per avere buoni risultati in una gara di Cup Tasters.

Se invece parliamo della capacità di capire perché un caffè è diverso da un altro o da cosa derivi una certa caratteristica, saranno più l’esperienza e le conoscenze maturate a fare la differenza, benché la sensibilità legata all’assaggio resti comunque una dote importante.

Sei stata giudice sensoriale all’interno della giuria del concorso “100 anni di qualità Filicori Zecchini”, concorso nato per festeggiare i cento anni dell’azienda bolognese che ha visto in gara i propri clienti: cosa si prova a essere giudice invece di concorrente?

Non è la prima volta che ricopro il ruolo di giudice, avendolo fatto anche in occasione delle competizioni SCA, e devo dire che questo tipo di esperienza mi ha permesso di vedere le cose da un’altra prospettiva.

In particolare, mi riferisco al fatto che, quando si è concorrenti, può capitare di arrabbiarsi o di trovare determinate situazioni ingiuste.

Vestendo i panni del giudice, invece, ho avuto modo di osservare tutto da un punto di vista differente, di comprendere meglio determinate dinamiche e di capire che, in certi casi, non c’era alcun motivo di prendersela.

Tra corsi di formazione e competizioni, la professione di barista sta diventando sempre meno improvvisata.

Credi che tutto questo fermento attorno alla materia abbia un impatto positivo sulla qualità del servizio offerto ai clienti?

Di sicuro, una maggiore ricerca e applicazione consentono di garantire una migliore qualità.

A questo proposito, però, bisogna distinguere tra la qualità del caffè e la qualità del servizio.

In Italia, generalmente, siamo abbastanza bravi nel servizio offerto al cliente, anche per merito dei ragazzi provenienti dagli istituti alberghieri che, di solito, mostrano già un’impostazione corretta.

A mio avviso, invece, si tende a prestare ancora poca attenzione alla qualità del caffè.

Tuttavia, complessivamente, su entrambi i fronti stiamo assistendo a un graduale, anche se lento, miglioramento.

Quali sono le attività di cui ti occupi attualmente?

Attualmente lavoro in maniera indipendente, occupandomi di formazione sul caffè (Helena Oliviero è trainer indipendente e trainer SCA per tutti i moduli, ndr) e coffee hunter (ricercatrice di caffè nei paesi produttori).

Collaboro soprattutto con l’estero, in particolare America Latina e Asia: aiuto i produttori a capire la qualità del caffè coltivato nelle piantagioni e provvedo a cercare lotti da importare in Europa.

Essendo l’anello di congiunzione tra i paesi consumatori e quelli produttori, il mio compito è confrontarmi direttamente con i contadini per trasmettere loro le caratteristiche che gli importatori cercano nei caffè esteri e aiutarli a perfezionare il proprio prodotto per essere più interessanti sul mercato.

Ci racconti com’è essere una giovane donna in un mondo che vede la presenza di tantissimi uomini a ogni livello della filiera?

A mio avviso non è facile essere donna ed essere giovane in questo settore, essendo un ambito tradizionalmente a maggioranza maschile.

In riferimento alla giovane età, in particolare, se in alcuni paesi – soprattutto nel Nord Europa – questa è vista come un plus, in Italia, purtroppo, trovo non ci sia ancora lo stesso approccio. 

L’essere giovani in Italia è spesso collegato a una mancanza di esperienza, mentre in altre culture è associato alla capacità di darsi da fare, di farsi valere e di avere una visione fresca e innovativa.

Molto diverso anche il concetto di esperienza, che può essere intesa come l’aver svolto lo stesso ruolo per molto tempo nella medesima realtà, oppure come l’aver cambiato frequentemente posizione, luogo e ambiente di lavoro, imparando sempre cose nuove.

Penso che in Italia ci si concentri molto sul primo aspetto, mentre sarebbe più efficace raggiungere un maggiore equilibrio tra i due.

Guardando all’estero, inoltre, ci sono alcuni paesi dov’è culturalmente incomprensibile che una donna possa rivestire ruoli di professionalità. 

È qui che è più importante darsi da fare per provare il proprio valore e ricavare i propri spazi, e posso dire che ciò è possibile se supportato da un impegno continuo e orientato ai buoni risultati.

Ritengo che in seguito, dopo aver rotto il ghiaccio, la differenza uomo/donna inizi a diminuire per lasciare spazio alle capacità individuali: per tale ragione, l’apprendimento costante è un aspetto fondamentale.

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